TANTE PICCOLE COSE, NE FANNO UNA GRANDE.

Pubblichiamo con piacere una lettera che ci è pervenuta qualche giorno fa, nella speranza che possa essere spunto di riflessione per chiunque si trovi a leggerne il contenuto.

Il problema del “dare forma alla sostanza” ovviamente è una degli obiettivi che ci piacerebbe raggiungere per il bene di una società cosciente e informata.

Una banalissima frase, pronunciata in un contesto usuale, si può trasformare in un “pugno allo stomaco” per coloro che nella stessa frase non ritrovano cotanta banalità…anzi, tutt’altro.

Allora il dilemma: lascio le cose come stanno perché d’altronde non è successo nulla? Glielo dico? Ma in che modo? E se perdo la pazienza? Ma non è che sono io ad essere troppo suscettibile? In realtà forse lo devo a mio figlio?…ed ecco una sfilza di interrogativi che inizia un balletto senza fine dentro il sipario del cervello di un papà molto attento.

Alla fine la decisione di affidare ad una lettera un pensiero che, anche se infinitamente piccolo, farà in modo che il mondo non sia come prima; perché anche se solo una persona sia stata messa nelle condizioni di riflettere e di cambiare punto di vista, il mondo allora è cambiato.

Se quel medico la prossima volta sarà messo nelle condizioni, quantomeno, di porsi il problema di pensare ad una frase prima di pronunciarla…vuol dire che ce l’abbiamo fatta.

La pubblichiamo con estremo piacere, ringraziando questo genitore e vi invitiamo a voler rifletterci su esprimendo il vostro preziosissimo parere.

 

“Gentilissima Dottoressa,

certo della Sua comprensione e della Sua professionalità, affido a questa lettera un pensiero che alberga dentro di me già da venerdì scorso, giorno in  cui è stato ricoverato mio figlio A.

Ho affidato questo pensiero ad una lettera in quanto l’ho ritenuto il mezzo più discreto per dirle quanto ho pensato e soprattutto perché volevo che rimanesse tutto “tra noi” senza il rischio di avere davanti suoi colleghi o tantomeno mio figlio stesso. Venerdì scorso, quando siamo arrivati in ambulatorio, se si ricorda, io e A. ci siamo accomodati in corridoio aspettando di effettuare la visita.

Lei si è prontamente prodigata per effettuare la visita e si è recata presso la stanza più vicina alla porta d’ingresso ed è andata a chiedere ai suoi colleghi la seguente informazione: “Lo devo visitare io, il bimbetto Down?

Questa frase è stata pronunciata in assoluta buona fede, la sua dolcezza e le sue capacità le ha ampiamente dimostrate da quando ci siamo conosciuti (e di queste sue doti sono certo!). Le volevo semplicemente far osservare che questa frase ha tuonato dentro di me come un macigno.

Il fatto è che io sono fiero di mio figlio per così com’è, non tanto per la sua sindrome che, al di là dei luoghi comuni (sono dolcissimi, sono buonissimi, sono teneri…) lo rende speciale oltremodo, e non voglio assolutamente negarne la presenza. È solo il fatto che ho ritenuto quanto meno inopportuno identificare un bambino per la sua condizione genetica. Consideri che noi genitori siamo stati chiamati a svolgere un compito speciale, ovvero quello di trasmettere al mondo la nostra gioia e la nostra voglia di lottare contro un mondo che riempie di ostacoli il percorso di vita delle persone che la società chiama “diversi”.

Se uniamo tante piccole cose, ne creiamo una grande.

E siccome questo fatto accaduto è una piccolissima (minuscola!) cosa, mi piace farla osservare nella speranza di trovare suo gradito accoglimento.

La invito a riflettere su quanto esposto e capire dentro di sé se sia giusto o meno, da parte mia, farglielo osservare.

Non è successo nulla, ovviamente, sono felice di averla conosciuta e di aver affidato a delle mani sapienti mio figlio.”

 

 

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